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La luce e i suoi effetti sul colore

“La luce è una cosa che non può essere riprodotta, ma deve essere rappresentata da qualcos’altro: dal colore. Sono stato molto compiaciuto di me stesso quando mi sono reso conto di questo.” Paul Cezanne (1839 – 1906)

Che cosa sono i colori? Questa domanda, solo apparentemente semplice, ha in realtà una risposta sorprendentemente complessa. Escludendo casi specifici, tutti sappiamo istintivamente cosa sono i colori: sono quella cosa che ci fa dire che la foglia è verde e la mela è rossa. Tuttavia, cercare di darne una definizione completa non è per nulla semplice. Ad uno sguardo superficiale, infatti, è facile interpretare il colore come qualcosa che appartiene intrinsecamente all’oggetto: la foglia /è/ verde, la mela /è/ rossa. Ma se guardiamo quello che succede in maniera più approfondita, scopriamo infatti che quello che noi chiamiamo genericamente “colore” è in realtà il risultato di un’interazione complessa tra fenomeni che appartengono ad ambiti profondamente diversi, dalla fisica alla neurobiologia alle scienze culturali, e che non è possibile separare la definizione di cosa sia il colore dalla comprensione di cosa sia la luce.

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La ricerca della luce

La comprensione della “vera natura” della luce è stato uno dei chiodi fissi dell’umanità praticamente da sempre. Nel primo secolo Lucrezio, poeta romano, riprendendo le idee dei filosofi atomisti, descriveva la luce come “composta da minuscoli atomi che, quando vengono scagliati, si precipitano attraverso lo spazio nella direzione impartita dall’impulso.” Secondo questa idea la luce era quindi formata da particelle discrete e separate fra loro, e i vari colori potevano essere spiegati dalla presenza di atomi luminosi di forma o natura diversa.

Ma il lavoro più importante sullo studio della luce e della visione viene, intorno all’anno Mille, dallo scienziato arabo Ibn al-Haytham (noto in occidente anche come Alhazen): i suoi studi di ottica e di fisiologia hanno posto le fondamenta per i pensatori successivi, come Cartesio intorno al 1600 che, distaccandosi dalle meditazioni filosofiche e concentrandosi sugli aspetti meccanici, ha dato impulso alla scienza dell’ottica fisica come oggi la conosciamo. Da qui, lo studio della natura della luce prende la forma di una delle diatribe più appassionanti nella storia della fisica, quella della ferita, apparentemente insanabile, tra due teorie della luce.

La cosiddetta “teoria corpuscolare” della luce ha avuto in Isaac Newton il proprio campione, avendo fornito nei suoi studi sia l’impalcatura matematica che alcune convincenti prove sperimentali: questa ha avuto quindi grande preminenza nel 18° secolo. L’ipotesi opposta, la cosiddetta “teoria ondulatoria”, vede invece la luce come un’onda continua che si propaga in un mezzo sottile e intangibile, il cosiddetto “etere”, così come elaborata da Huygens e Eulero. La teoria ondulatoria, inizialmente meno favorita, ha invece acquisito massima importanza quando Faraday prima e Maxwell poi hanno eliminato la necessità dell’etere, postulando che la luce non fosse altro che un’onda di energia che si propaga tramite oscillazioni del campo elettromagnetico. Questa ipotesi aveva anche il vantaggio di spiegare in maniera semplice i diversi “colori” come diverse lunghezze d’onda di questa oscillazione.

La teoria contemporanea della luce, sviluppata tra gli altri da Plank, de Broglie, e Einstein, invece di prendere posizione tra queste due possibilità (corpuscolare/discreta e ondulatoria/continua) le ammette entrambe. Nella teoria quantistica, infatti, le “particelle di luce” sono descritte come “pacchetti d’onda”, chiamati fotoni che, pur avendo caratteristiche ondulatorie, non possono però essere divisi (non esiste cioè “mezzo fotone”). La difficoltà concettuale di questa idea è che mentre le teorie precedenti cercavano come detto di rivelare la “vera natura” della luce e dei colori, la teoria quantistica immagina la luce come un fenomeno che non è né una particella né un’onda, ma che può essere descritta di volta in volta con strumenti matematici derivati da queste rappresentazioni: il problema non è quindi nella “vera natura” della luce, ma nella capacità limitata della nostra mente di comprendere completamente un fenomeno così lontano dalla nostra esperienza macroscopica

E quindi?

Ma allora, che cosa sono in definitiva i colori, e come fa la luce a crearli e mostrarceli in tutta la loro straordinaria varietà? La risposta, come abbiamo accennato, dipende da una complessa interazione di fattori, e paradossalmente dalla persona a cui vorrete rivolgere la domanda. Per un fisico, per un chimico, per un neuroscienziato, per un pittore, il “colore” significa tante cose diverse; la descrizione fisica che possiamo dare è solo una di queste, ben sapendo che altre definizioni sono possibili. Quello che possiamo dire, in tutti i casi, è che il colore è una proprietà emergente dell’interazione della luce con il materiale di cui è composto un oggetto e con le caratteristiche dell’osservatore. Non possiamo quindi che concordare con Paul Cezanne: la luce e il colore sono così intrinsecamente legati che non possiamo pensare ad uno senza l’altro, e viceversa. E noi abbiamo tutti un debito di riconoscenza: sia con gli scienziati, che l’hanno studiata, che con i pittori, che l’hanno celebrata.

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